La legalizzazione dell’eutanasia non è un progresso, ma una rinuncia
(Originale in Francese)
Di Mons. Dominique Rey
Mentre in Parlamento si discute sulla legalizzazione dell’eutanasia, Mons. Dominique Rey, Vescovo emerito di Fréjus-Toulon, esprime il suo punto di vista su questo «progetto di società» e sul modo in cui consideriamo la fragilità umana.
Ci sono leggi che, dietro le parole rassicuranti della libertà, segnano un fallimento nella visione del mondo. Una società si rivela per quello che è nel modo in cui considera i suoi membri più fragili. La legalizzazione dell’eutanasia, attualmente in discussione al Parlamento, segna una capitolazione morale e spirituale: essa, infatti, afferma che alcuni esseri umani possono essere di troppo.
Non è tanto la sofferenza che si pretende di sconfiggere. I progressi della medicina consentono ormai di alleviare quasi ogni dolore fisico. Ciò che questa legge cerca di risolvere è una solitudine più intima: quella di una vita che disturba perché è diventata vulnerabile. La vecchiaia, la malattia, la dipendenza… sono tutti volti di un’umanità che non è più performante, che ha perso la sua autonomia. E che viene gentilmente invitata a togliersi di mezzo.
Io non sono tra chi idealizza la sofferenza. Ma sono tra chi ritiene che la dignità non dipenda mai dal nostro stato di salute. Che lo sguardo che rivolgiamo agli altri ha il potere di risollevare o di abbattere. E ho paura di una società in cui si insegna a chi soffre che per la sua vita non esiste altra soluzione che togliersi di mezzo. Laddove vorrebbero farci credere che si tratta di una scelta, in realtà esercitano una pressione sociale: non devi essere un peso, un costo, un disturbo. L’eutanasia diventa una via di fuga offerta a chi non è in grado di sopportare tale pressione.
Non rinunciamo!
La legalizzazione dell’eutanasia non è un progresso. È una rinuncia. Una rinuncia ad accompagnare. Una rinuncia a quella fratellanza paziente ed impegnativa che aiuta il prossimo nelle sue difficoltà. Una rinuncia, infine, a credere che l’uomo, fino ai suoi ultimi giorni, possa ancora crescere, comunicare, sperare. Conferma l’idea che alcune solitudini sono senza soluzione. Inserisce nel nostro diritto non una vittoria sulla sofferenza, ma una sconfitta di fronte alla solitudine.
Lo sguardo che abbiamo sulla vecchiaia e sul fine vita dice qualcosa della nostra civiltà. Quello su cui si sta legiferando influenzerà gli ultimi momenti dell’esistenza. La legge diventa uno specchio crudele di come la fragilità cessa di essere una scuola di umanità per diventare un peso da alleviare o eliminare.
Accompagnare un essere umano fino alla fine significa non sottrarsi mai a ciò che la sua esistenza risveglia in noi: la nostra paura della dipendenza, la nostra difficoltà ad essere presenti. Ma è anche qui che l’uomo si rivela pienamente umano: quando non fugge, quando rimane, quando dà un aiuto. Questa presenza semplice e costante è talvolta più efficace di qualsiasi cura medica. È la risposta invisibile alla sofferenza morale, all’angoscia interiore, a quella sorda paura di essere abbandonati.
Ogni giorno, nelle case di riposo, nelle camere d’ospedale, nei cuori stanchi, vedo quanto uno sguardo, una presenza, una mano tesa possano riaprire l’orizzonte. La domanda non è: «Cosa fare di coloro che soffrono?», ma: «Cosa sono disposto a essere per chi soffre?». Non sono le cure a umanizzare il fine vita, ma la relazione. Il semplice fatto di essere lì. E di continuare a crederci.
Esiste, nel profondo dell’uomo, una sorgente che la fragilità non può prosciugare. Anzi, può persino rivelarla. Non permettiamo alla legge di ignorarla. Non tradiamo coloro che, nei loro letti, nel loro silenzio, nella loro lotta, ci affidano un’ultima missione: quella di amare fino alla fine.


